16.09.2020 – UN RICORDO DI MARIO TORELLI (15/05/1937 – 15/09/2020)

Ieri se ne è andato Mario Torelli, classe 1937, uno dei giganti dell’archeologia italiana, solo riduttivamente classificabile come etruscologo.

Torelli è stato allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, animatore tra i più attivi dei Dialoghi di Archeologia, rivista che ha cambiato, rivoluzionandola, l’archeologia italiana.

I suoi studi di topografia, urbanistica, iconografia e iconologia, storia dell’arte e etruscologia, rimangono tra i testi fondamentali della disciplina; non crediamo ci sia archeologo italiano, formato nella seconda metà del ventesimo secolo e nel ventunesimo, che non abbia studiato su almeno uno dei suoi libri e articoli.

Per tutta la vita ha incarnato il più perfetto identikit dell’intellettuale impegnato in politica, per tutta la vita coerente con le proprie idee e le proprie posizioni, sempre difese a viso aperto.

Quando la Confederazione Italiana Archeologi nacque, nel 2004, gli chiedemmo un testo per l’allora appena nata rivista EXNOVO, che vi riproponiamo (è stato ripubblicato nel 2016 dalla rinata EXNOVO – Journal of Archaeology e lo trovate al seguente indirizzo: http://archaeologiaexnovo.org/2016/wp-content/uploads/2016/12/7.-Appendice-Perch%C3%A8-larcheologia.pdf):

Confidenze ai giovani di EX NOVO

Non posso nascondere di essermi commosso nel ricevere l’invito dei giovani archeologi del gruppo EX NOVO a scrivere un intervento per una rivista che essi si propongono di diffondere on line. Sono passati esattamente quaranta anni dalle tumultuarie riunioni presso la Fondazione Besso in Largo Argentina a Roma del 1965, nel corso delle quali un folto gruppo di giovani archeologi, fra i quali ero anche io, attivi all’interno dello schieramento di sinistra, decidevano di fondare una rivista, che due anni più tardi, nel 1967, si sarebbe concretata nel primo numero dei “Dialoghi di Archeologia”. Leggendo in superficie gli eventi di allora e le circostanze di oggi, si può senz’altro affermare che i temi agitati nel 1965 sembrano essere quasi gli stessi proposti oggi dai giovani di EX NOVO all’attenzione di alcuni seniores dell’archeologia come sono io e come mi risultano essere gli altri colleghi oggetto di analogo invito.

Si direbbe dunque quasi un déja vu degli eventi del 1965, ma scriverlo sarebbe un grossolano errore. Partendo dalla stessa formulazione del documento, è facile osservare che il linguaggio di oggi, garbato e sommesso, contrasta con il linguaggio di allora, molto aggressivo e self-sufficient, non privo della retorica che preannunciava quella del non lontano ’68. Anche allora, usciti dai primi dibattiti tenuti all’interno della neonata Società degli Archeologi Italiani, tanto timidi sul piano dei contenuti quanto violenti sul piano delle forme, veri e propri scontri con la vecchia generazione clerico-fascista a quel tempo di fatto coincidente con l’intera ufficialità accademica, sia quella delle Soprintendenze che quella delle Università, i futuri Amici dei “Dialoghi di Archeologia” si rivolsero ad un senior, allora unico a militare a sinistra, Ranuccio Bianchi Bandinelli, perchè sponsorizzasse (a quei tempi naturalmente non si diceva così) una rivista, che egli poi di fatto con grande coraggio fondò e diresse fino alla sua morte nel 1975. A differenza di allora, oggi non solo non c’è bisogno di alcuna sponsorship di accademici di peso per fondare una rivista, che il web consente di ospitare praticamente senza spese, ma anche l’ufficialità archeologica non si può dire sia comunque tutta schierata su posizioni dichiaratamente reazionarie, pur presentandosi di fatto ‘bigia’ e molto ‘amebica’: questo, sia detto fra parentesi, paradossalmente ma non troppo, non è un vantaggio, perchè, a differenza di quanto accadeva quarant’anni fa, non consente di vedere ictu oculi quale sia il vero nemico. E’ vero. le discussioni contenute nei ‘documenti politici’ dei futuri Amici dei “Dialoghi di Archeologia” erano confuse e astratte e io stesso, a molti anni di distanza, non ho lesinato critiche a quella astrattezza, scrivendo una prefazione al bel libro Antico e archeologia. Scienza e politica delle diverse antichità, che sulla storia della tutela ha scritto P.G.Guzzo nel 1993 [e da poco ristampato: lo leggano, se non l’hanno già fatto, i giovani di EX NOVO, perchè, come insegnano i padri della sinistra, la conoscenza della propria storia costituisce notoriamente un’arma in più di cui servirsi]: eppure quei dibattiti e i documenti successivamente approvati dal gruppo degli Amici dei “Dialoghi di Archeologia” erano il frutto di una presa di coscienza del modo di fare archeologia, di un lucido bisogno d’impegno (nel senso di quell’engagement cui ci avevano abituato le elaborazioni politiche del PCI), che, secondo quelle opinioni, doveva accompagnare il lavoro intellettuale e che oggi, in un quadro politico nazionale dominato dalla ‘morte delle ideologie’, oscuramente riemerge nella proposta dai giovani di EX NOVO, i quali, in conseguenza di quella ‘morte’, finiscono per formulare i loro più che giusti interrogativi in maniera più ingenua e confusa rispetto ai proclami degli Amici dei “Dialoghi di Archeologia”.

Quello che rispetto a quarant’anni or sono è radicalmente diverso è proprio il quadro generale nel quale un giovane archeologo si accinge a lavorare, diverso sul piano delle ideologie correnti e diverso sul piano del lavoro. Il quadro generale del lavoro di oggi è fatto di una miriade di attività superprecarie, mille volte più numerose rispetto alle forme d’impiego della mia gioventù, fra le quali spiccava il “novantista”, figura identica a quella dell’attuale “trimestrale”, peraltro – a qual che so – sconosciuto nelle Soprintendenze di oggi. Sul piano professionale specifico non esistevano attività remunerative di sorta, tranne forme d’impiego temporaneo francamente miserabili, in pratica soltanto quella di capocantiere dei cantieri di lavoro gestiti dal Ministero del Lavoro (in cui ho prestato la mia opera per tre mesi nel lontanissimo 1957 a Subiaco) o quella di titolare di schedature, peraltro allora tanto rare, che nei cinque anni di servizio come ispettore di Soprintendenza per l’Etruria Meridionale ricordo soltanto un caso, quello di una simpatica giovane schedatrice (poi saggiamente passata all’insegnamento), impegnata nello studio dei frammenti Campana del Museo di Villa Giulia. Insomma il mercato del lavoro era arcaico, e soprattutto legato a pratiche clientelari neanche tanto occulte. Per entrare in una Soprintendenza come “novantista” occorreva essere cliens di Soprintendenti o di alti funzionari ministeriali o raccomandati da ‘pezzi grossi’ dei partiti di governo: una volta ottenuta la grazia si poteva nutrire la non infondata speranza di diventare “avventizi”, in pratica stabili, in previsione di qualche “anno santo” responsabile di una generalizzata immissione in ruolo, che avrebbe fatto degli “avventizi” altrettanti ispettori. Non pochi “avventizi” sono con il tempo divenuti addirittura Soprintendenti, che in molti casi non sono stati peggiori di altri entrati nell’Amministrazione in seguito a quel regolare concorso, obbligatorio (!) secondo la Costituzione della Repubblica.  Insomma da un paleocapitalismo di stampo borbonico, saldamente gestito in maniera ‘morbida’, con stile ecclesiastico, dalla DC, si è passato al turbocapitalismo di oggi investito della missione di imporre ovunque il lavoro “flessibile” e di procedere alla sistematica distruzione dello Stato liberale, costruito a fatica nei primi cinquant’anni del Regno e sopravvissuto attraverso due Guerre Mondiali, il fascismo e la Ricostruzione, che bene o male è riuscito a conservare al Paese almeno una parte dei Beni Culturali tramandatici dal nostro glorioso passato, che ora, come è noto, l’attuale governo vorrebbe invece festosamente vendere.

Allora, i giovani Amici dei “Dialoghi di Archeologia” sapevano (o credevano di sapere) cosa fare: l’analisi marxista dello Stato capitalista era chiara ai loro occhi e chiarissime erano le le ricette suggerite dalle esperienze sovietiche, come si può dedurre dalla lettura dei documenti della parte ‘politica’ dei “Dialoghi di Archeologia”, veri esercizi di socialismo reale, che naturalmente non hanno fatto un sol passo nella realtà ferreamente controllata dalla DC. Non è un caso che la morte della parte ‘politica’ della rivista – e con essa la vita politica del gruppo degli Amici dei “Dialoghi di Archeologia” – si collochi alla fine degli anni ’70, all’epoca della solidarietà nazionale e dell’inizio della “fine della sinistra”. Tra le molte cose allora non comprese, il PCI non ha saputo capire la portata devastante dell’assalto clientelare portato allo Stato, nello specifico dei Beni Culturali, con la legge 285/78 da una classe di governo profondamente corrotta. Nella legge tutti noi, io per primo, abbiamo stoltamente e ciecamente creduto: oggi essa ci appare come il primo passo che avrebbe condotto l’Italia negli anni Ottanta nell’abisso di Tangentopoli, di cui la finanziaria del 1985, con i famigerati “giacimenti culturali” di De Michelis, costituisce l’inesplorato capitolo relativo ai Beni Culturali. Negli anni successivi la questione dei Beni Culturali è definitivamente morta come questione nazionale, mentre la sinistra, duramente provata da una serie di sconfitte, veniva rapidamente smarrendo ogni guida teorica per affrontare il “lungo inverno”.

A mio modestissimo avviso, ai giovani di EX NOVO gioverebbe moltissimo riprendere il vecchio metodo di analisi, quello stesso da noi a suo tempo impiegato (evitando dogmatismi di ogni genere), per sottoporre a critica i caratteri della formazione economica della società in cui oggi viviamo, partendo dal riconoscimento della condizione di ‘proletariato intellettuale’, che i giovani di EX NOVO larvatamente denunciano per se stessi, per porsi poi il problema di una rappresentanza, delle necessarie alleanze, primo passo in direzione di un’efficace azione di tutela della propria professionalità: una delle prime battaglie da fare nello specifico del modo in cui essi sono costretti a prestare la loro opera, c’è quello che li vuole meri raccoglitori di dati, e che invece di quei dati dovrebbe vederli elaboratori ed editori, venendo definitivamente sottratti a quella vera e propria “alienazione” intellettuale, che li rende, nel campo del lavoro intellettuale, molto simili agli operai delle fabbriche di un secolo e mezzo fa così efficacemente descritti da Karl Marx. Non debbo essere certo io (e non perchè, come ingenuamente si diceva nel ’68, i professori possono costituire per la contestazione giovanile la ‘controparte’, chiaramente collocata altrove) a dire ai giovani di EX NOVO quali alleanze cercare, dove collocare la rappresentanza dei proprii interessi: quello che sento invece il dovere di segnalare loro è la necessità di sottoporre a dura critica il loro modo di fare scienza. Oggi è imperativo che l’archeologia sia e resti una scienza storica, come indicato trent’anni or sono da Bianchi Bandinelli, e non diventi una variante salottiera delle scienze sociali, inutile manifestazione di un’evasione tanto cara alle classi agiate di tutti i tempi (come me avrete sentito mille volte dire da gente di ogni ceto “che invidia! quanto avrei voluto anch’io fare l’archeologo!”), cui vorrebbero ridurla le dottrine neo-archeologiche e le loro “revisioni”, da Renfrew a Hodder; sappiamo che il loro fondamento metodologico posa su di un monumentale equivoco, tutto anglosassone, dell’eternità e immutabilità del common sense, metro di ogni fenomeno e di ogni ipotesi, senza parlare del fatto che esse pretendono di sostituire ogni altro genere di evidenza (in primis le fonti letterarie) e di porsi come forsennatamente nomotetiche. Questo metodo, assieme allo “scavo per lo scavo”, altro demone dell’ultimo trentennio, va criticato e combattuto, così come vanno combattuti quanti se ne servono o se ne fanno scudo metodologico, nelle Università come nelle Soprintendenze: solo riconoscendo la radici storiche del metodo archeologico si può recuperare la vera funzione sociale della nostra professione. Allo stesso vaglio critico vanno sottoposti tutti i maestri che avete avuto, esattamente come quarant’anni fa ha fatto la parte a quel tempo migliore della mia generazione – e dio solo sa con quanti eccessi e quanta durezza ! -, facendo però attenzione a non ‘buttar l’acqua sporca con il bambino’: non si tratta di uccidere i padri, ma di vedere quanta responsabilità ognuno di loro abbia nell’aver determinato l’attuale stato delle cose nell’archeologia sia teorica che militante. Niente catarsi aristoteliche, dunque, ma solo meditata anatomia di una situazione, quella di voi giovani di EX NOVO e della scienza nella quale con la vostra iniziativa fate mostra di credere nella maniera per me migliore.