PRECARIO IL LAVORO, PRECARIE LE NOSTRE VITE

In questi giorni, come spesso succede, si è riaccesa sui social e nei discorsi tra colleghi la questione relativa ai compensi degli archeologi e alle loro, o meglio, alle nostre, condizioni lavorative. 

È un tema sempre difficile da affrontare, si rischia sempre di sbandare tra la condanna di chi accetta determinati compensi e la minaccia di improbabili e inattuabili scioperi.

Alcuni anni fa numerosi archeologi lavoravano con un unico committente in una grande città italiana, cercarono l’aiuto delle associazioni professionali per risolvere i loro problemi con la committenza e con le società che avevano vinto le gare di appalto per quel tipo di servizi. All’epoca, la paga dei nostri colleghi era di circa 60 euro al giorno per l’assistenza in corso d’opera quotidiana: 8 ore al giorno, a volte con più di un cantiere da controllare, con i ritrovamenti archeologici che mettevano sulle loro spalle molte responsabilità in più, oltre a tanti compiti ulteriori rispetto al normale, ma non facevano cambiare compenso per la loro giornata di lavoro.

All’inizio dicemmo loro che non dovevano accettare quel compenso, come spesso leggiamo tra colleghi nei commenti sui social a post che riguardano argomenti simili.

E lì imparammo la lezione più importante per chi vuole occuparsi di professionisti e dei loro problemi: mai giudicare le situazioni altrui guardando il proprio portafoglio o le proprie opportunità e mai pensare che in una catena alimentare spietata, la colpa di essere mangiato sia del pesce più piccolo.

La battaglia la combattemmo insieme, secondo i tempi che cercavamo di dettare come associazione e mediando con le esigenze dei professionisti, denunciando più di una volta sui giornali quello che accadeva (a fronte delle tariffe energetiche che venivano proposte ai clienti e agli utili che il committente stesso aveva) e costringendo il committente, in nome di una rispettabilità che non doveva essere offuscata, a scendere a patti e alzare le tariffe di partenza delle gare che venivano poi proposte alle società invitate.

Vincemmo! E le tariffe proposte agli archeologi raddoppiarono. Ma non per questo tutti gli archeologi che si erano esposti in quella battaglia ne trassero i frutti, qualcuno cambiò lavoro per sempre, qualcuno ci mise un po’ a tornare sul campo. E qualcosa l’abbiamo persa negli anni, ma ci stiamo mobilitando di nuovo, perché nessuna vittoria è per sempre. 

Finita la battaglia non chiedemmo la tessera associativa a quei professionisti, in compenso, però, furono loro a venire da noi entrando a far parte dell’associazione. Oggi molti di loro rappresentano un bel pezzo del gruppo dirigente della CIA. Fu il segno che avevamo lavorato bene, la nostra vittoria più bella e duratura.

Quella per i diritti non è una battaglia soggettiva, che ognuno può o deve affrontare da solo, né una battaglia che si combatte con gesti estremi o eclatanti, col rischio di esporre i professionisti, appunto i pesci piccoli della catena alimentare, alle ritorsioni della committenza o delle società più spregiudicate. 

I professionisti che accettano compensi bassi spesso non hanno alternative, devono pagare le bollette, a volte un mutuo, più spesso un affitto. A volte non sanno di potere o dover chiedere di più. Molti non sanno di valere quello che chiedono. Ignorano di essere un perno importante della macchina con cui si amministrano le infrastrutture e la tutela dei Beni archeologici. Non è chiedendo loro di rinunciare a quel lavoro che vinceremo la guerra, né cercando in loro le colpe di un sistema sclerotizzato e privo di regole. Non è neanche pensando che il contesto di precarietà in cui gli archeologi si muovono sia esclusivo di questa professione. 

Precario è il lavoro e il mercato a esso legato. Precarie le nostre vite. 

Oggi la CIA cerca di rispondere alle sfide della professione partendo da dati e numeri, scaturiti dalle ricerche che abbiamo compiuto negli anni di vita associativa. Non da ultima ARCHEOCONTRATTI, che analizza le condizioni contrattuali offerte e accettate dagli archeologi italiani nell’ultimo triennio. 

I dati di ARCHEOCONTRATTI provengono da un sondaggio svolto online, cui ha risposto un congruo numero di professionisti. Il 90% delle risposte sono arrivate da archeologi che lavorano con contratti di assunzione come collaboratore o con lettera di incarico specifica per un solo lavoro, che in genere è legato allo svolgimento di un cantiere. La situazione che emerge è che rispetto al triennio 2014-2016 c’è stato un leggero miglioramento: all’epoca i compensi raramente superavano i 150€ a giornata, mentre al momento ci sono prezzi che oscillano anche tra i 160€ e i 200€. Purtroppo ancora compaiono, in numero sempre troppo alto, contratti con compensi vessatori di 60/80€ a giornata, prezzo lesivo della professione. Inoltre dobbiamo sottolineare come, nonostante siano stati regolamentati legalmente, i tempi di pagamento, grazie all’utilizzo di clausole che li allungano pretestuosamente, non sono mai contemplati nei 30 giorni previsti dal Job Act delle Partite IVA, ma si allungano fino a giungere i 120 giorni. 

A nostro avviso sono queste le cause da combattere per migliorare la situazione in cui spesso versa la nostra vita professionale, non la messa al bando della vita del singolo collega! Vanno affrontate queste situazioni in modo sistemico per evitare che si possano ripetere e che diventi illegale l’utilizzo di clausole che allungano i tempi di pagamento. Va modificato il modo di aggiudicare gli appalti che permettono, a una filiera troppo lunga, di ribassare il prezzo del nostro lavoro fino all’estremo. Va fatto in modo che utilizzare una partita IVA al posto di un dipendente deve costare di più a una società, non di meno! Bisogna pretendere che vengano applicati i giusti contratti per i dipendenti e che una partita IVA non debba subire l’imposizione di una tariffa o di un rapporto di dipendenza.

Però, lo sappiamo, forse è più facile alzare il dito e puntarlo contro un singolo, che prendersela con un sistema sbagliato!